Questa domanda fa riferimento a un ambito delicato, nel quale occorre muoversi con cautela, ma anche fare un po’ di chiarezza. Il più delle volte infatti il consumatore medio, che fa i suoi acquisti per esempio nella grande distribuzione, si ritrova a comperare oli extravergine di oliva che definiremmo standard, caratterizzati da un livello qualitativo e organolettico medio-basso. Questi prodotti però, tecnicamente, rientrano a tutto diritto nella categoria merceologica degli oli extravergine. Il problema infatti sta a monte, cioè nel fatto che le normative attuali non prevedono ancora parametri così rigidi da garantire un livello qualitativo superiore.

Dare merito a realtà produttive medio-piccole, che puntano sull’eccellenza qualitativa e hanno il controllo di tutta la filiera (dalla pianta alla bottiglia), significa infatti non soltanto educare il consumatore a scegliere la qualità e a comprare anche in modo diverso (attraverso l’acquisto diretto dal produttore), ma significa altresì incoraggiare il produttore a puntare sulla qualità dei suoi prodotti. Del resto la qualità è il punto di forza dell’Italia olivicola, una qualità a tutto campo: coltivazione, raccolta e trasformazione si avvalgono di tecnologie all’avanguardia e compatibili con la materia prima e con l’ambiente. Ma la vera ragione della leadership italiana sta nella ricchezza del parco varietale: più di 500 cultivar (su circa 1.300 mondiali) che danno origine a oli di altissima qualità e tipicità. A garanzia di questa complessità l’Italia vanta un ventaglio di ben 43 Denominazioni (42 Dop e una Igp), cui si aggiungono tante produzioni da Agricoltura Biologica o Biodinamica che costituiscono un ulteriore arricchimento.

SOURCE: Marco Oreggia, http://www.marco-oreggia.com/